PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

Ripubblico sostanzialmente immutato il mio saggio del 1947 pur ben avvertendo che esso avrebbe bisogno non solo di correzioni e cambiamenti particolari anche in alcune analisi singole, ma di un certo rinnovamento generale in rapporto a una piú generale interpretazione dell’intera personalità leopardiana e del suo sviluppo.

In attesa di poter realizzare tale interpretazione generale in una nuova monografia leopardiana, preferisco per ora non rimetter le mani (se non per minime correzioni) nel saggio del ’47 e mi accontento di ripresentarlo nella sua struttura originale, anche perché esso mi pare sempre rappresentare un momento e una svolta di particolare importanza nella storia del problema critico leopardiano sia per la nuova interpretazione dell’ultimo Leopardi sia per i suggerimenti e le istanze generali che lo sorreggono. Specie se si pensi che lo stesso saggio del ’47 maturava intuizioni già presenti in uno scritto breve del ’35, Linea e momenti della lirica leopardiana[1] (derivato a sua volta da un lavoro di tesina discusso nel ’34 con il Momigliano, a Pisa, ripreso poi e discusso come tesi normalistica con il Gentile nel ’35), in un’epoca in cui tanto piú forte era la loro novità e discordanza dalle immagini prevalenti del Leopardi tutto idillico delle interpretazioni crociane e derobertisiane.

Del resto la novità della mia interpretazione fu confermata, all’uscita del volume del ’47, dalle stesse variazioni del De Robertis che, in un’appassionata recensione (raccolta poi nel volume Primi studi Manzoniani)[2], rifiutava la mia interpretazione esagerandone, con involontaria tendenziosità, una presunta preminenza da me attribuita all’ultimo Leopardi rispetto al Leopardi dei grandi idilli mentre il coté crociano ortodosso avvertiva il pericoloso invito del mio libro ad una revisione di tutto il problema leopardiano fuori e contro l’immagine dell’idillico «spettatore alla finestra», del Leopardi della «vita strozzata», del suo patologico pessimismo incapace di posizioni storicamente importanti e storicamente profonde, privo di impegno polemicamente fecondo e di rapporto con la poesia: pessimismo di cui il Croce poteva sottolineare vicinanze assurde con le posizioni reazionarie di Monaldo, mentre il Gentile, pur benemerito degli studi leopardiani per l’instaurato rapporto pensiero-poesia, rischiava di proiettare la posizione leopardiana verso una sorta di ottimistica vittoria idealistica e di risolvere tutto in quello che il Russo chiamò «esaltato grigiore di poesia».

Invece uno studioso, particolarmente sensibile a istanze storicistiche concrete e a nuovi pronunciamenti di nuove tesi critiche, il Sapegno, proprio nel ’47, nel terzo volume del suo Compendio di storia della letteratura italiana, interamente accoglieva, dalla formulazione del mio primo saggio del ’35, la mia tesi e ne riprendeva linee e definizioni risviluppandole, nell’ultimo paragrafo del suo capitolo leopardiano, in una lucidissima e personale sintesi che ne rilanciava e ne espandeva autorevolmente la novità e la validità. E, nello stesso anno (anno felice per il progresso del problema critico leopardiano), il Luporini, nel suo saggio su Leopardi progressivo[3], convergeva, da un diverso e autonomo punto di partenza, con la mia interpretazione, offrendo ai leopardisti un’articolazione della personalità del «moralista» Leopardi che superava la posizione esistenzialistica del suo precedente saggio del ’38[4] e (realizzando in una piú decisa e approfondita direzione certi spunti felici delle pagine leopardiane del Salvatorelli nel suo Pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, del ’35) confortava l’immagine di un Leopardi attivo e «storico» (distinguendo acutamente nello svolgimento del pensiero leopardiano fra «progresso» e «perfettibilità») impegnato in una polemica profonda contro lo spiritualismo e le posizioni della restaurazione e dei liberali moderati. E ne avvertiva la fondamentale sostanza eroica e ne avvalorava la forza di messaggio specie all’altezza dell’ultimo periodo e della Ginestra giungendo sino a postulare un «se» («se fosse vissuto fino al ’48») analogo a quello desanctisiano del saggio su Leopardi e Schopenhauer, da lui forzato sino ad una certa tendenziosità di avvicinamento con posizioni democratico-marxiste.

Pur non accettando quella conclusione (come feci in una recensione nel «Nuovo corriere» di Firenze del 17 agosto 1948) e pur avvertendo, insieme al Sapegno, il limite del saggio di Luporini nella sua non considerazione della forza particolare della poesia (ché anzi egli finiva per ricadere, nel caso di A se stesso, nella definizione negativa di un gelido e frettoloso biglietto di congedo), io considerai fin da allora molto importante la vicinanza (pur con forti differenze) fra la interpretazione filosofica di Luporini e la mia interpretazione storico-critica basata sullo studio della poetica, e fin da allora cominciai ad avvertire l’esigenza di riprendere piú direttamente il problema generale della poesia leopardiana, del rapporto fra poetica eroica e poetica idillica, dell’intero storico sviluppo della personalità leopardiana.

Intanto, da parte di altri critici si veniva sempre piú accettando, per l’ultimo Leopardi, la validità sostanziale della mia tesi (cito almeno il caso del Bigi, specie nel suo articolo per il Grande dizionario enciclopedico dell’UTET), e la spinta impressa dal mio volume, dalle pagine del Sapegno, dal saggio del Luporini negli studi leopardiani, in direzione di nuovi studi sul pensiero, sulla presenza culturale, sulla poesia del Leopardi entro la storia sua del suo tempo, fruttava la nuova valutazione della filologia leopardiana nel volume del Timpanaro[5], sollecitava (accanto a tentativi di nuove formulazioni generali come quello del Bosco e del suo Titanismo e pietà nella poesia del Leopardi)[6] nuove interpretazioni di poesie leopardiane (il saggio del Blasucci sulle canzoni patriottiche[7], il ricco studio del Muscetta sull’Ultimo canto di Saffo)[8] in una prospettiva sempre piú lontana dalla interpretazione di tipo crociano contro cui anzitutto si era motivata la mia posizione.

Per parte mia, dopo una ripresa della mia tesi in un volumetto, Tre liriche del Leopardi[9] (presentazione e commento del Pensiero dominante, Amore e morte e A se stesso) e una nuova considerazione degli spunti desanctisiani validi ad allargare la stessa formula idillica desanctisiana di contro alla sua consolidazione restrittiva crociana[10], tornai piú volte privatamente a studiare la necessità di rivedere la mia interpretazione soprattutto in un migliore accordo con l’attività leopardiana precedente al ’30 che, nel volume del ’47, poteva forse apparire troppo risolta in un puro passaggio di contrasto e non sufficientemente agevolata da quella ricerca di motivi non idillici reperiti soprattutto in Alla sua donna e nel Coro dei morti.

In tal senso operai un tentativo, condizionato in parte dall’occasione celebrativa, nel discorso tenuto a Recanati il 29 giugno del ’60 e poi pubblicato nel fascicolo di dicembre dello stesso anno del «Ponte»: La poesia eroica di Giacomo Leopardi. E da quel discorso che, nella sua parte maggiore, ripresentava sinteticamente la mia interpretazione dell’ultimo Leopardi con qualche elemento di maggiore consolidamento storico specie per la fase di preparazione della Ginestra, riporto qui la parte piú generale, che può dare un’idea (per la verità ancora incompleta e formulata piuttosto frettolosamente) delle esigenze di revisione a cui ho piú volte accennato.

L’immagine crociana del Leopardi che pur contribuiva – in accordo con altre e diverse e sensibili interpretazioni sollecitate dal gusto della poesia pura di origine postsimbolistica ed ermetica – a rilevare fortemente la grandezza e la perfezione della poesia idillica, il supremo valore lirico dei canti del periodo pisano-recanatese e la loro coerenza con gli spunti piú profondi e moderni della poetica dello Zibaldone, aveva in sé il grosso rischio di una riduzione inaccettabile della intera personalità leopardiana e delle sue possibilità di altra poesia, di una incomprensione di altri aspetti e motivi del grande poeta e, a ben guardare, finiva per impoverire la stessa poesia idillica privandola dei suoi fermenti piú generali, del suo vitale rapporto dialettico con altri motivi e tensioni poetiche, spirituali, morali, non riducibili nell’ambito della natura e della poetica idillica, sino al rischio poi di definizioni, che non mancarono, di Leopardi come ultimo, seppur divino, «pastorello d’Arcadia».

Sicché le stesse sublimi figure poetiche idillico-elegiache di Silvia o Nerina potevano perdere quella profonda risonanza elegiaca, che sale dall’ansia di un recupero, nell’armonia del ricordo, di una disperata tensione alla felicità e alla partecipazione personale alla vita, acuita dalla diagnosi, denuncia e protesta pessimistica sulla situazione esistenziale degli uomini, che nel Leopardi erano ben motivi autentici e radicali, pertinenti alla sua natura, alla sua posizione ideale e alla sua esperienza vitale e storica, e non vane, inutili o sol patetiche aspirazioni di un uomo chiuso alla vita e alla storia, incapace di vivere e di esprimersi se non nella direzione della contemplazione e del ricordo.

E infatti, se nessuno – ed io meno d’ogni altro – vorrà negare la perfezione della poesia idillica, il tono lirico supremo attinto dal Leopardi nella dorata maturità del periodo pisano-recanatese (da A Silvia al Canto notturno), occorrerà pur rendersi conto che quella poesia, nella sua limpidezza luminosa e malinconica (in cui comunque l’elegia è essenziale componente e il quadro armonico e limpido vive nell’onda di un rimpianto e di una vibrazione sentimentale fortissima) non avrebbe raggiunto tale perfezione se non fosse cresciuta entro una dialettica vitale e poetica piú complessa, non avrebbe raggiunto la sua purezza se non fosse stata filtrata attraverso un eccezionale tormento di pensiero e di cultura, se non fosse stata sorretta da una partecipazione intensa del poeta ai grandi problemi della crisi romantica e da una forza spirituale e morale che solo giustificano l’assolutezza di quella voce e la distinguono da un dono puramente istintivo e gratuito di bel canto.

E come non poteva essere indifferente alla poesia leopardiana il suo profondo tormento speculativo (donde la comprensione almeno della prosa poetica delle Operette e del rapporto fra queste e i grandi idilli in critici pur fedeli alla preminente vocazione idillica del Leopardi), cosí non poteva essere indifferente alla poesia l’impegno morale ed eroico della personalità del Leopardi e del suo pensiero come aveva in qualche modo avvertito il De Sanctis quando aveva notato che la morale eroica è la parte piú poetica del pensiero leopardiano.

Solo che quella parte poetica del pensiero leopardiano era poi, piú di quanto sembrasse al grande critico romantico, parte non solo del pensiero ma dell’animo da cui quel pensiero traeva tale suo accento energico e cosí essa stessa era radice potenziale di poesia, era un modo del profondo sentire leopardiano, della sua originaria disposizione di esperienza vitale e sentimentale che nello svolgimento del poeta (tutt’altro che statico ed evasivo, tutt’altro che incapace di impegno e di vita nel presente e nella storia) venne cercando espressione poetica prima piú parzialmente entro forme insufficienti e immature, e nell’intreccio con il piú urgente motivo idillico. E poi – espresso totalmente il motivo idillico, risolto in intera poesia il momento idillico – raggiunse la poesia in una piú compatta zona (dal ’30 alla morte) in cui tutta la personalità leopardiana, con tutto il suo pensiero, con tutte le sue esigenze culturali e morali, si realizza in un supremo sforzo di affermazione di se stessa e in una direzione di poetica che non si può assolutamente comprendere nelle sue ragioni interne ed artistiche, e nei suoi risultati, se si resti fermi alla postulazione di un Leopardi unicamente idillico, e se non si comprenda la radicale pertinenza anche di motivi non idillici alla personalità e all’animo poetico leopardiano.

Una tensione eroica (risolvendo in questa parola un complesso modo di sentire e di vivere le cui implicazioni culturali e storiche rimanderebbero ad una lunga diagnosi della situazione del Leopardi nella crisi romantica e nell’epoca della restaurazione e del Risorgimento) è radicale nella personalità leopardiana. E variamente se ne avverte vibrare l’accento nella lunga esperienza delle canzoni (per non dir poi della forza esasperata che assume in tante lettere giovanili, fra disperazione e ansia di vita in cui la stessa letteratura è sentita come mezzo di affermazione di una personalità eccezionale e ripresa storica di temi alfieriani e foscoliani): sia nelle canzoni patriottiche in cui piú chiaramente si configura in bisogno di azione e di intervento personale, condotto fino a certa patetica sproporzione (l’armi, qua l’armi) e tuttavia, seppure poeticamente ancora improduttivo e appesantito e sviato da limiti di classicismo e di nazionalismo letterario, già qui dotato di un timbro di decisione, di coraggio, di impegno personale di cui non si può negare l’autenticità sentimentale e morale e la spinta a traduzione poetica.

E se ugualmente nella canzone Ad Angelo Mai, in quella Nelle nozze della sorella Paolina, o in quella A un vincitore nel pallone, l’impeto eroico che tende a riprendere le posizioni poetico-combattive dell’Alfieri, o l’appassionata ammirazione per Colombo e l’esaltazione delle virtú eroiche delle donne romane, e della bellezza del rischio, si sviano di nuovo entro linee poetiche ancora incerte e risentono negativamente di una meno chiarita visione filosofica e culturale, a tutto ciò non manca una radice personale non mentita, un accento genuino di coraggio, un’autentica esigenza di assoluto impiego delle proprie forze interiori e poetiche che trovano poi, in un piú risoluto e maturo raccordo di questa tensione eroica con le nuove conclusioni della indagine pessimistica (capovolto l’originario rousseauismo in una intuizione negativa della natura e dell’ordine delle cose) nuova e piú forte e personale espressione nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo. Dove piú coerentemente la posizione di denuncia della situazione umana e di protesta contro l’ordine ferreo ma inaccettabile delle cose, contro una realtà sostanzialmente sbagliata in cui i valori vivono battuti e pur non meno profondamente desiderati e onorati, si trasforma nell’urgente e coerente sostegno di una espressione poetica che vive il suo eroismo disperato e suicida in contenuti filosofici universali piú adatti alla profondità dell’impegno leopardiano e sembra, sulle soglie delle Operette, avviare il Leopardi ad una poesia piú vicina a posizioni romantiche europee.

Ma certo, nella dinamica dello svolgimento leopardiano, quegli spunti eroici erano ancora incapaci di imporsi come elemento continuo e dominante nella poesia e nella poetica leopardiana e finivano per essere riassorbiti come base intima di risonanza e di tensione dentro la poesia idillica (magari fino alle forme esplicite dell’invettiva contro Recanati che nelle Ricordanze ha pure una sua funzione di tensione rispetto al grande finale) che non con autonome capacità di propria intera espressione.

Mentre ebbero la forza di farsi autonoma e costante direzione poetica quando tornarono a premere urgenti, e legate a tutta una nuova maturazione dell’animo leopardiano, ad una nuova tensione del pensiero, a un nuovo alto senso del proprio valore e del valore delle proprie idee e delle posizioni ideologiche cui esse si riferivano, quando la conclusione e l’effettiva realizzazione dell’ispirazione idillica coincise con l’apertura di speranze nuove e di nuove possibilità di vita tanto piú stimolanti. Ciò soprattutto dopo l’analisi e lo scavo intellettuale e poetico delle Operette (in cui capriccio melanconico, analisi e denuncia si impastano preparando la poesia idillica ma insieme formulando posizioni che sol dopo di questa verranno riassunte in prospettiva piú decisamente polemica ed eroica), dopo l’altissimo ultimo confino recanatese.

Sicché gli elementi non idillici, la rinnovata tensione del pensiero, il senso alto del proprio valore, delle proprie idee e delle posizioni ideologiche e culturali cui esse si riferivano, vennero a prender nuova forza e coerenza proprio quando la conclusione e l’effettiva realizzazione intera dell’ispirazione idillica coincise con l’abbandono di Recanati, «nido di sogni» ma anche prigione e limite di affermazione vitale, con l’apertura di speranze nuove e di nuove possibilità di vita tanto piú energicamente accettate e stimolanti al termine del soggiorno recanatese. In cui il compenso della grande poesia era stato però pagato al caro prezzo del timore di una perpetua esclusione da una vita di attività e di affetti e di rapporti culturali ed umani, in climi di maggior vitalità culturale e di stimolo intellettuale, cui il Leopardi intensamente aspirava, tutt’altro che interamente soddisfatto (come sarebbe stato di un uomo solamente idillico, di uno spettatore alla finestra) del cerchio incantato del ricordo e della stessa grande poesia del ricordo e del rifugio nella rievocazione triste e dolce dell’infanzia e dell’adolescenza.

Solo quest’anno ho dato inizio ad una ricostruzione di tutto lo svolgimento leopardiano da cui mi riprometto, se l’interesse profondo che prendo a questo nuovo colloquio con il grande poeta non m’inganna, notevoli risultati critici. Ma tutto ciò è in mano agli Dei, che, come si sa, sono invidiosi della fortuna degli uomini: ed io mi riterrei davvero fortunato se riuscissi comunque a dar forma ad un disegno per me cosí appassionante e cosí legato a temi e problemi per me non solo professionali.

Come mi ritenni davvero fortunato quando nel ’47, in mezzo ai lavori pesantissimi dell’Assemblea Costituente, riuscii a terminare e sistemare e pubblicare un libro sull’Ariosto, uno sul preromanticismo e questo saggio leopardiano: certo fra quelli il piú caro a me, il piú mio nei suoi centri animatori, quello che in ogni caso non vorrei non avere scritto, e che anche perciò ripubblico oggi riconoscendolo insieme come stimolo fondamentale e base e parte relativamente consolidata del disegno cui ora intendo dedicarmi.

Walter Binni

Firenze, 20 giugno 1962

PREMESSA ALLA TERZA EDIZIONE

In questa edizione ripubblico in appendice il testo del volumetto Tre liriche del Leopardi, uscito nel 1950 presso la casa editrice Lucentia di Lucca, da molto tempo esaurito. Può costituire, specie per quanto riguarda le tre liriche esaminate (Pensiero, Amore e Morte, A se stesso), una non inutile integrazione piú sintetica (nel discorso generale) e insieme (nel commento) piú analitica, al volume da cui quello scritto derivava.

Walter Binni

Roma, 1 gennaio 1971

PREMESSA ALLA QUARTA EDIZIONE

Mentre, accanto alla edizione del ’71, alla ristampa del ’79 (nella collana «Nuova Biblioteca» Sansoni) di questo volume, uscivano l’edizione di Tutte le opere di Giacomo Leopardi a cura mia, con la collaborazione di E. Ghidetti (Sansoni, 1969) e il mio volume La protesta di Leopardi (Sansoni, 1973, 1974, 1977, 1982, 1984) che riprendeva e consolidava la mia introduzione all’edizione ricordata (nuova intera ricostruzione dello sviluppo della personalità e dell’opera leopardiana) e raccoglieva altri miei saggi leopardiani fra ’60 e ’80 (Leopardi e la poesia del secondo Settecento, La poesia eroica di Giacomo Leopardi, La lettera del 20 febbraio 1823, La poesia di Leopardi negli anni napoletani), nella presente edizione della Nuova poetica leopardiana, nella collana «Nuovi saggi», ritengo non inutile, a documentare in parte il lungo cammino della mia interpretazione leopardiana, riprodurre in una nuova appendice altri miei brevi scritti leopardiani. Anzitutto un articolo del 1935, Linea e momenti della poesia leopardiana che, mentre piú generalmente ricercava nella lirica leopardiana quell’unione fra pensiero e poesia che mi appariva realizzata compiutamente solo negli ultimi canti, sintetizzava il piú lungo e analitico lavoro di una tesina di terzo anno, L’ultimo periodo della lirica leopardiana, discussa all’Università di Pisa con Attilio Momigliano il 25 giugno 1934 (di 120 pagine dattiloscritte di cui conservo la copia postillata dal Momigliano). Articolo che pur con chiari eccessi di posizioni idealistico-romantiche, fortemente non crociane, conteneva già punti saldi della mia successiva interpretazione della nuova poetica leopardiana.

Riproduco inoltre una recensione del ’48 al saggio del Luporini, a cui faccio seguire, come spiegazione del momento storico e del problema critico leopardiano in cui si inserivano, nel ’47, il saggio mio e quello di Luporini, un piú lungo scritto tratto dalla registrazione di un mio discorso al Gabinetto Vieusseux di Firenze nel maggio 1980 come presentazione della ripubblicazione del saggio del Luporini in volumetto autonomo.

Walter Binni

Roma, 4 febbraio 1984

PREMESSA ALLA NUOVA EDIZIONE

Questo libro, nato nel 1947, mentre ero deputato all’Assemblea Costituente, riprendeva a nuovo livello di maturità critica una prima interpretazione dell’ultimo, grande periodo della poesia leopardiana da me individuato in un lavoro universitario del 1933-34 discusso con Attilio Momigliano. Esso aprí una lunga fase della critica leopardiana spezzando l’interpretazione allora egemone, in chiave esclusivamente idillica e puristica, e originando una vasta raggiera di nuove interpretazioni. Da allora si tese infatti a valorizzare sempre piú la forza dirompente della poetica energica, eroica degli ultimi canti, rivendicando (come feci piú tardi io stesso nel saggio del ’73, La protesta di Leopardi) la modernissima radice di una poetica che coniuga pensiero e poesia in un progetto totale di intervento nella storia.

Sono cosí particolarmente lieto di partecipare all’inizio del bicentenario leopardiano almeno con la riproposizione di questo libro per me fondamentale nella lunga vicenda del mio lavoro sul Leopardi.

Walter Binni

Roma, 1 settembre 1997


1 Estratto dal volume miscellaneo Sviluppi delle celebrazioni marchigiane, Macerata 1935.

2 Firenze 1949.

3 In: Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947.

4 Il pensiero di Leopardi, in Studi sul Leopardi, Livorno 1938.

5 S. Timpanaro jr., La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955.

6 Firenze 1957.

7 L. Blasucci, Sulle due prime canzoni leopardiane, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1961, I.

8 C. Muscetta, L’Ultimo canto di Saffo, in «La rassegna della letteratura italiana», 1959, 2.

9 Lucca 1950.

10 F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, a c. W. Binni, Bari 1953 (e il mio De Sanctis e Leopardi in: Carducci e altri saggi, Torino 1960).